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Una breve cronistoria della mia vitaccia musicale. Con alcune doverose premesse: scrivo in italiano, un po’ perché sono un vero snob, un po’ perché penso che tanto non ci sarebbero nugoli di anglofoni ed anglofili sgomitanti, a leggere le banalità che scrivo e – last but not least - un po’ perché il mio inglese non è poi così fluente da permettermi di scarabocchiare decentemente i miei pensieri, un’attività che manco riesco a esercitare con decoro nella mia lingua madre, figuriamoci in un’altra.
Infine: non è meraviglioso, financo sublime, capire cosa scrivono gli altri, ben sapendo che loro non capiscono te?
Ma procediamo con ordine, per lo meno cronologico.
Fase uno. L’età del grande ormone e del rock’n’roll, delle pelli dei tamburi sfondate, ma anche dell’integralismo quasi maniacale, al limite del paganesimo, nei confronti degli anni ‘60 e ‘70 (per altro assolutamente fondato: oggi ne sono sempre più convinto, era solo da ammorbidire e limare un pochetto).
Tutto è iniziato, banalmente, con una musicassetta dei Beatles, una raccolta, regalatami dal mio vecchio a 11 o 12 anni, non ricordo con esattezza. Un giorno parlando con un suo amico in mia presenza, a domanda rispose che no, a me della musica non importava nulla. Pur essendo vero in modo incontrovertibile, mi risentii moltissimo di quella affermazione, e mi sentii in obbligo di obiettare che la cosa non corrispondeva assolutamente a verità, dannazione. Lui mi chiese, quindi, che musica mi piacesse, ed io, d’istinto, pur non avendo mai sentito una loro canzone, risposi: i Beatles. Probabilmente perché era l’unico gruppo che avessi mai sentito nominare.
Poi finì che la cassetta mi piacque sul serio, che esplose il grande amore per i Bealtes in pieno stile adolescenziale, e a seguire verso tutti gli altri gruppi della grande tradizione del rock di quegli anni, Pink Floyd sopra tutti, ma poi anche Rolling Stones, Deep Purple, Led Zeppelin, Jimi Hendrix, David Bowie, Jethro Tull, Jefferson Airplane, The Who e via rockeggiando.
Fase due. Ovvero, il metallo pesante, il prog, il fascino oscuro per la tecnica. Il medioevo, si sa, arriva per tutti. C’è di buono, che in quel periodo ho imparato a suonare decentemente la chitarra oltre ad aver scoperto ed amato i grandi - che tutt’ora considero grandi, sia chiaro - gruppi e dischi metal e progressive. I primi Metallica, i Genesis di Peter Gabriel, gli Yes dei primi album, i King Crimson, ma anche la scena prog italiana. Per qualche ora della mia vita, penso addirittura di aver subito il fascino dei guitar heroes segaioli. Ma non pensiamoci più.
Fase tre. La miccia del jazz era ormai troppo corta, ed era pronta ad innescare la detonazione. La scintilla che ha dato il via al processo è stata un’opera monumentale e senza tempo, "Somethin’ Else" di Cannonball Adderley. Da qua è decollato tutto, ed è partito il mio amore parallelo e a volte un po’ schizofrenico per il jazz, che coltivo da allora senza soluzione di continuità, con una predilezione per tutto cosa è avvenuto tra gli anni ’40 e i primi ’70. John Coltrane, Miles Davis e Bill Evans, sono tre fra i miei eroi di sempre. Insieme a João Gilberto, che ha anche incarnato il veicolo per il viaggio verso la musica carioca.
Fase quattro. Esiste un presente e c’è qualcosa di buono. Sono gli anni anni ’90 e inevitabilmente arriva il fascino per l’alternative rock, per l’indie, per la scena di Seattle, per parte del brit-pop (Blur su tutti) fino ad arrivare a derive elettroniche. Un sacco di bella roba, che ha però il grosso difetto di identificare spessissimo, quasi sempre (quasi: esistono anche fantastici cazzoni, tipo i Red Hot Chili Peppers degli esordi), una generazione di giovani sempre più intimista, svogliata e languidamente depressa, rappresentata in maniera così paradigmatica da quei Radiohead, tanto celebrati. Insomma un periodo un po’ cupo nelle espressioni musicali, ma probabilmente ancora genuino, a differenza di quasi tutto il rock (e non solo) degli anni successivi, riciclato, sterile e posticcio anche nel malessere raffigurato. E anche quando non lo è, vedasi il c.d. post rock, che pur mi ha affascinato per un lasso temporale non trascurabile, alla fine comunque viene un po' a noia.
Fase cinque. Liberi tutti: giù le barriere spazio-temporali e buona parte dei pregiudizi tipici dell’intransigenza e dell’integralismo giovanili, cercando di affrancarsi anche dalle catene dei condizionamenti esterni, come ad esempio quelli provenienti dagli amici o dalla critica musicale. Potremmo abbozzare timidamente un “la fase della maturità”, non fosse, però, che mentre lo scrivo già mi scappa da ridere.
Dunque, a periodi alterni, nuovi grandi amori (come ad esempio rockabilly, country, soul, prewar folk, library music o MPB) e recupero e approfondimento di vecchie glorie (kraut, punk e post punk, per dirla alla Simon Reynolds, visto che la new wave, come concetto, è oramai una contraddizione in termini, nonostante molti siamo convinti che sia tuttora un genere di grande attualità), in chiave spesso (e fieramente) primitivista e passatista (garage anni ‘60 über alles).
Bene. Dopo tutta questa bella sintesi, con la quale penso di aver fatto per lo più un gran minestrone di idee frammentarie, incomplete e un po’ confuse, cerchiamo, seguendo la medesima linea di disordine, di fare qualche nome, pescando fra quelli immortali, quelli che ritornano spesso e sempre in pompa magna. Eviterò di dire: “questi sono i miei artisti preferiti”, né vaneggerò sulla completezza della lista, semplicemente, vado elencando alcuni musicisti che hanno scritto e interpretato cose l’ascolto delle quali rende la vita un po’ migliore.
Oltre ai già citati Miles Davis, John Coltrane, Bill Evans e João Gilberto: Sonny Rollins, Cannonball Adderley, Charles Mingus, Cal Tjader, Paolo Conte, Tom Waits, Willy DeVille, Ry Cooder, Neil Young, i CCR, Johnny Cash, Gal Costa, i Velvet Underground, i Ramones (e con loro un po' tutta la scena newyorkese che girava intorno al CBGB's e al Max's Kansas City nella seconda metà degli anni 70), i Pink Floyd, i Rolling Stones, i Beach Boys, i Bealtes, gli Oblivians (e compagnia rockeggiante marchiata Crypt Records) i Black Sabbath, i Kyuss, Jimi Hendrix, gli Stooges, i Monks, David Bowie, Tim Buckley, i Doors, i NRBQ, Bob Dylan, Hank Williams, Charley Patton, Blind Willie Johnson, Ennio Morricone, i Meters (e, al seguito, tutto l'immaginario funky/soul - e dintorni - targato New Orleans).
Epilogo. Quindi? Quindi, semplicemente, che ognuno ascolti la musica che più gli aggrada. Io ne ho amata tanta e moltissima ne amerò ancora in futuro, registrando continuamente i miei gusti, allineandoli di volta in volta al mio umore e più in generale al periodo che starò vivendo in quel determinato momento. Certo è che alcune linee guida, inevitabilmente, l’esperienza di ciascuno di noi le traccia. Ad esempio, difficilmente potrò mai amare molta della robaccia prodotta negli anni ’80, anche solo per l’orripilante gusto con cui venivano registrati i dischi (cazzo, quei rullanti! Non può essere vero!), così come non potrò mai amare quella che definisco la musica per i musicisti, cioè la vacua ostensione della tecnica (non siete mai andati ad un concerto di Dave Weckl? Ci troverete solo uno sparuto gruppo di batteristi - privi di qualsivoglia gusto o cultura musicale - con le bave alla bocca, accompagnati al massimo da qualche amico chitarrista). Cioè, la tecnica va bene, non è assolutamente da demonizzare, sia chiaro (ma a volte la sua assenza, può stimolare la fantasia e veicolare la famosa urgenza per altre vie, a vantaggio di una maggiore capacità espressiva), ma deve essere assolutamente asservita al risultato finale, guai altrimenti.
Infine, ho imparato una cosa, uscendo dal dogma dell’album quale unica via per la beatificazione: viva (anche) i singoli e, soprattutto, viva le raccolte di artisti vari: più d’una fra queste ultime sono diventate fra i miei dischi preferiti di sempre (a mero titolo di esempio: “The Anthology of American Folk Music”, “Nuggets: Original Artyfacts from the First Psychedelic Era”, tutti i capitoli dedicati al funky di New Orleans della Soul Jazz Records, il decalogo sacro "Back from the grave" del profeta Tim Warren, un po' tutto ciò che ha a che fare con la lounge e le colonne sonore italiane degli anni 60, come le serie "Women in lounge", "Metti una bossa a cena", "Easy tempo" et cetera).
(Continua…?)

Comments

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  • fufiski 2013-01-23 18:26:47.370352+00
    non conosco gli Oblivians (provvederò a colmare la lacuna) ma il vinile merita anche solo per la copertina (e spesso mi sono fidato delle copertine)
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  • rustica 2013-01-28 20:34:45.335432+00
    Visto Django ieri sera. Faccio mia la tua puntuale recensione. Grazie delle tue sempre ficcanti considerazioni.
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  • ... 2013-06-04 10:01:16.978198+00
    Spiegami perchè LaFayette e Napoleone (degli Aristogatti)? Non mi perplime la cosa in sè ma spiegami il perchè ahahha
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  • flobaby 2014-05-25 23:33:24.371303+00
    Gracias for the inclusion!
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  • fufiski 2016-11-29 15:58:03.504311+00
    Vizio di forma: per ora non ho letto il libro nè visto il film, spero sia pari alla recensione (quando ho letto macguffin mi sono alzato a fare la ola...)
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  • bluetrain73 2016-11-29 17:55:23.680209+00
    Grazie, ma ora sono in piena ansia da prestazione (ex post). :-)
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  • fufiski 2017-02-06 14:40:13.478591+00
    i miei complimenti per le tue recensioni cinematografiche ormai sono scontati però se volevi convincermi a guardare il film bastavano le ultime due righe...
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  • fufiski 2017-02-06 17:23:25.191932+00
    beh ma non va sempre bene, la parola chiave era Willy DeVille
    ...
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